lunedì 15 maggio 2017

su IL GIORNO DEL GIUDIZIO di Salvatore Satta

Conversazione intercorsa tra Maria Rosa Giannalia, animatrice del corso
 SCRITTORI e   SCRITTURE, 
Bianca Mannu, commentatrice e Dario Cosseddu, lettore 

Maria Rosa -1° domanda:
Nella scelta che abbiamo fatto di questo romanzo c’è un’idea di letteratura che desideriamo condividere, al di là degli schemi convenzionali che in questo momento la letteratura sarda sembra volere confermare? Quale modello di scrittura vogliamo che venga fuori da questa rassegna che nel suo sottotitolo parla di incontri con autori italiani e stranieri?

Bianca risponde
Il pericolo peggiore per gli scrittori sardi: inforcare la mitologia legata al folclore o a un immaginario indefinito con l’idea che si possa essere graditi al pubblico liberando il lettore dalla fatica di scoprirsi dentro un problema e di interrogarsi sulla propria consistenza umana e morale. Il vero scrittore è mosso dalla grande serietà del suo gioco e vi investe la propria cultura, mai contenta di sé, la propria esperienza di vita e la sua capacità di collegare tramite lo strumento linguistico, condensato in uno stile, tutta la ricchezza interiore, compreso il senso della vita, la sua filosofia, la sollecitudine e la responsabilità verso i propri simili.

Maria Rosa - 2° domanda( letture pagg. 11-12e 14-15 )
Entriamo nel merito: in questo romanzo Salvatore Satta ci presenta un grande affresco della società nuorese tra la fine dell’ottocento e la fine della prima guerra mondiale. Società che possiamo considerare come metafora di ogni società vista nella prospettiva del passato e perciò più facilmente analizzabile nelle sue caratteristiche.
Iniziamo dalla famiglia Sanna Carboni e dal modo col quale Don Sebastiano, il personaggio principale , e la sua famiglia vengono descritti e, in prospettiva, tutta Nuoro.

Bianca risponde
Bisogna dire subito che la narrazione è in terza persona e comincia da un interno. Ciò meraviglia un po’ perché il romanzo moderno rifiuta l’atteggiamento onnisciente dell’autore che occhieggia dalle fessure e legge l’animo dei personaggi. Salvatore Satta gioca per un po’ con questa finzione e solo gradualmente rende edotto il lettore del suo essere stato un testimone diretto e perfino intimo.
La casa di Don Sebastiano è un luogo simbolo della città, casa-studio del notaio, perciò monumentale e scomodissima.  Egli, spiega l’autore, è un signore e non un rustico, è persona di un’istituzione, un funzionario che conosce, registra gli atti inerenti le transazioni importanti di un aggregato umano e ne garantisce la legalità. Di nobiltà rurale pregressa, Don Sebastiano vive il sentimento della legalità; è dotato di probità personale e di spirito “democratico”. Concetto che, nel lessico di Satta, significa voler confermare il ruolo sociale raggiunto e curarne la crescita economica coi proventi del proprio lavoro da funzionario, conservando uno stile di vita personale e della famiglia severo, ma di rilievo per incutere rispetto ai corvi di quel nido, Nuoro”. In altre parole democrazia era la mobilità migliorativa economica, possibile e desiderabile per i signori.

Maria Rosa - 3°domanda ( letture  lettura pagg. 45-46 e 48-50 )
C’è in questo romanzo una figura femminile emblematica:  donna Vincenza , moglie di don Sebastiano.
Quale rapporto lega questi due coniugi così diversi ma tuttavia accomunati dall’appartenenza al luogo? A quella Nuoro in particolare?  Come viene tratteggiata questa figura femminile che è la prima che il lettore incontra ma non certo l’unica?
Bianca risponde
Malgrado la distinzione sociale e un’educazione attenta alle forme , Don Sebastiano ha in comune con i suoi concittadini una fondamentale disistima verso la componente femminile dell’umanità circostante. Le donne, a Nuoro, non hanno visibilità e voce. Dice S. Satta che non c’è niente che irriti di più il maschio nuorese beneducato quanto l’intelligenza femminile. E per sua sfortuna Donna Vincenza era intelligente ed era ispirata dalla sua felice infanzia con un padre piemontese a prendere parte alle questioni dell’economia familiare. Orfana e povera, conoscerà da sposata tutti i tentativi del marito (disinteresse, anaffettività, disistima, taccagneria, uso del suo corpo con frequenti gravidanze),di ridurla a una condizione larvale. E qui lo scrittore non si perita di analizzare i sentimenti reciproci dei coniugi, il loro franare e il loro collasso. Il disaccordo coniugale si profila come due culture che  collidono e che in forza dell’impronta patriarcale maggioritaria, quella non supportata deve cedere.

Maria Rosa - 4° domanda ( lettura pp.73-74 e 75-77)
Ma vediamo come don Sebastiano si rapporta alla terra, in particolare all’attività agricola e all’atteggiamento proprietario che nasce dal profondo legame con la terra. E’ questo il tema che ricorre in ogni autore sardo: il forte legame con la terra e la contrapposizione tra valori agricoli e valori pastorali. Come ci parla di questo, Salvatore Satta attraverso il suo personaggio?

Bianca risponde
 Il legame di Don Sebastiano con la terra è strumentale, come quello degli altri signori nuoresi. La gran parte di costoro vive delle rendite agricole che i mezzadri e braccianti seunesi  lavorano. Ma i mutamenti generali del mondo evoluto rendono precaria la rendita agricola. Don Sebastiano è consapevole.
Diverso da quello dei Séunesi, abitanti del rione contadino, per i quali la terra era fatica, ma sopravvivenza, dunque bene supremo; diverso ancora da quello da rapina dei pastori di San Pietro, luogo d’uso e abuso della terra in funzione degli armenti e del commercio dei sottoprodotti. Il possesso territoriale è l’emblema di una condizione sociale consolidata, quella nobiliare plurisecolare. Ma non è l’unico asse economico dell’uomo della seconda rivoluzione industriale, qual è Don Sebastiano Sanna benché appartato rispetto alle metropoli del cambiamento. Questi lavora pulito e guadagna, ma tesaurizza, investe anche in crediti. Il possesso di terre e la loro miglioria è una sorta di polizza sociale che si autofinanzia (vino), ma che Don Sebastiano persegue come sua sinecura e da imprenditore intelligente. Era timoroso che i figli  crescendo concepissero la rendita agricola  come il loro fondamento economico e rimanessero inattivi, sciupando la loro esistenza alla stregua degli sfaticati del caffè Tettamanzi. L’obiettivo di Don Sebastiano era di avviarli alle professioni liberali, ma non supponeva il formarsi nel loro animo di quella piega sensuale ed estetica che lo scrittore riconosce a se medesimo, e parzialmente ai fratelli in gioventù, e che chiama infezione poetica, un sentimento simile al legame pagano con la natura.

Maria Rosa -5° domanda  (lettura pp. 98-100)
L’altra grande protagonista di questo romanzo è Nuoro: il tema di questa città attraversa tutte le pagine e , come un filo rosso, lega tutti i personaggi, la storia e  la natura. Il topos principale che fa da perno a tutta la narrazione è il cimitero di Nuoro in cui l’autore si reca per condurre il lettore ad esplorare e quasi esumare la storia dei nuoresi. Come vengono trattati questo tema e questo topos? E in cosa possiamo considerarli fondamentali per questa opera di Satta?

Bianca risponde
Il ritratto fluido, per dir così, di Nuoro, percorre l’intero romanzo, assumendo via via come propri connotati costanti le motivazioni che muovono i comportamenti delle persone secondo i crismi del proprio gruppo sociale. Nuoro è trina: Sèuna contadina povera accosciata sulla terra intorno al foghile, San Pietro rampante e razziatore con case alte e grandi dove vige un ordinamento gerarchico primitivo e la Nuoro civile intorno alla via Majore, con le grandi case signorili, volte all’interno, dove vivono chiuse le donne forzate a un nubilato infinito.  Invidia, avidità e rozzezza sono equamente distribuite fra i ceti, perciò, malgrado l’usanza di “fare le parti” non corrono veri sentimenti di amicizia e solidarietà fra cittadini.
Il romanzo ha nella casa di Don Sebastiano il suo collo di bottiglia, luogo della sanzione economica e della memoria rurale, ma non ha un unico centro. Il centro istituzionale sono il tribunale,la prefettura, la Curia coi suoi fasti e nefasti, il municipio dove il sindaco era uno di fuori, davanti al quale i signori nuoresi stavano “col cappello in mano” e, convinti che la politica non li riguardasse, si lasciavano scippare l’amministrazione della città senza accorgersi di questo trapasso di poteri.   Un altro centro che riuniva gaudenti, nullafacenti e semifalliti della classe signorile era il caffè Tettamanzi, cosi come la Farmacia era punto di ritrovo dei signori più austeri. 
Lo scrittore, nel tentativo di coordinare i due spezzoni della sua esistenza cerca il cimitero, pensandolo come luogo dei segni della memoria, ma si rende conto che non sono le tombe coi nomi sbiaditi e obsoleti a suscitare il ricordo, piuttosto i vivi che sembrano duplicare i morti. Così non è questa o quella tomba a parlargli, ma il percorso funerario, lungo il quale riprendono vita preti, sacristi e campanari e tutta la carovana dei nuoresi animati da una sorta di piacere dionisiaco: il loro spirito pagano e irriverente è reso evidente dalle circostanze luttuose.

Maria Rosa - 6° domanda  (lettura pp.118-120)
Qualche cambiamento avviene però in questa Nuoro così immobile e sonnolenta: l’autore ci racconta la vicenda di don Ricciotti Bellisai e del nuovo direttore della scuola che, in certo modo, arriva fresco di nomina e scardina alcune usanze consolidate dalla tradizione. Che senso ha questo tentativo di cambiamento ?

Bianca risponde
I cambiamenti sono spesso inavvertiti, se non per piccoli segni su cui si fissa l’infastidita reazione dei nuoresi: essi vedono il dito e non la luna indicata. Cosi la campanella scolastica, già del convento, non suona più? Perché mai, come si avvertiranno gli alunni che è l’ora della lezione? Chi sarà mai quel prepotente che ha ordinato il silenzio? Vogliono protestare e non si sono resi conto che lo Stato Sabaudo è in conflitto con la Chiesa per via della requisizione dei beni ecclesiastici e per il fatto che lo stato Sabaudo ha portato allo stato laicale l’istruzione. Cosi in tanti aspetti della vita un atteggiamento laicale prendeva il posto dell’ingenua religiosità fatta di segni rassicuranti e un poco stregoneschi abituali.


Maria Rosa - 7° domanda (lettura pp.176-178)

Sembra quasi che Salvatore Satta non abbia voluto dare alla sua città neppure il beneficio di una possibile coscienza politica: la vicenda di Ricciotti Bellisai  e il suo tentativo di rivoluzione popolare in senso marxista fallisce miseramente. Raccontaci un po’ questo aspetto del romanzo che, per certi versi, è stato visto  come inquietante, forse anche alla luce del momento storico che l’Italia attraversava all’atto della pubblicazione postuma  del libro prima nel 1977 dalla CEDAM e poi ad opera della casa editrice Adelphi nel 1979.

Bianca risponde
Veramente l’ingresso in politica da parte di  Don Ricciotti Bellisai non aveva nulla di marxista. Così come si diceva marxista il modo degli studenti di fare lo sberleffo ai preti. Egli, invece, voleva strappare dalle mani di Don Sebastiano la casa di Loreneddu che colui aveva comprato all’asta dopo il fallimento del padre di Don Ricciotti. E che Don Sebastiano sosteneva di averla comprata dietro preghiera del padre di Don Ricciotti, affinché non andasse in mani straniere.
Per ottenere Loreneddu in modo inappellabile gli occorreva un potere che condizionasse quello di Don Sebastiano. Esso poteva venirgli dalla politica. Pensò di candidarsi come deputato del Regno. Ma, mancando degli agganci giusti e del titolo di avvocato che gli avrebbe fruttato la credibilità dei signori, si candidò come animatore e capo di un’associazione contadina di Sèuna, di vago sentore socialista, facendo leva sui bisogni inevasi di quei contadini che prese a sobillare, svegliando in essi speranze palingenetiche con l’oratoria, peraltro ad essi incomprensibile. Ma ciò che lasciò sconcertato Don Sebastiano, (e per altro verso donna Vincenza che vedeva l’inadeguatezza dei figli a operare con la furba facondia di Bellisai) fu, che i suoi figli e altri giovani studenti furono soggiogati dal fascino dell’oratoria di Bellisai e dunque parevano pronti ad abbracciare le rivendicazioni dei poveri:quasi un tradimento personale e sociale. E tuttavia l’impresa politica di Bellisai fallì, anche perché scoppiò la guerra.

Maria Rosa - 8° domanda (P. 207-208, da Anche a Europa)

Ad un certo punto del romanzo, Satta introduce il discorso sulla prima guerra mondiale in atto nella penisola, ma il suo sguardo è quasi esclusivamente per il modo in cui tale guerra viene vissuta a Nuoro, attraverso il punto di vista delle donne e anche della stessa donna Vincenza che affiora qua e là in tutta la narrazione.

Bianca risponde
Così come il trapasso dalla condizione di Regno Sardo Sabaudo a Regno d’Italia era avvenuto senza che i nuoresi se ne avvedessero: i sommovimenti politici prebellici non ebbero eco in città. Don Sebastiano, che leggeva il giornale, fu informato dell’eccidio di Serajevo e delle conseguenze belliche che sarebbero sopraggiunte per l’Italia. Avendo 64 anni, non si sentiva direttamente coinvolto. Due dei figli maggiori erano già professionalmente formati, (Gaetano da medico e Michele da ingegnere) ma, esclusi i due piccoli, erano tutti arruolabili. E fu allora che, mentre Don Sebastiano si abbandonava a un contenuto entusiasmo patriottico, Donna Vincenza, alzando la voce come non mai, gridava che l’Italia non era in condizioni di entrare in guerra, che la guerra sarebbe durata e avrebbe rubato i figli al suo affetto e alla sua protezione. Con la sua sensibilità femminile antivedeva ciò che Don Sebastiano non sapeva ricavare dalla lettura dei giornali. Le donne,secondo l’Autore
posseggono l’intelligenza del cuore. Il senso della guerra giunge a Nuoro solo con la comunicazione alla famiglia del caduto, ma donna Vincenza è sempre in angoscia. 

Maria Rosa - 9° domanda (lettura pp.257-258  che farà Bianca stessa )

In fondo al romanzo viene ripreso il tema del tempo nella fine triste e tragica del sogno di Gonaria, la maestrina. Questa fragile figura femminile sembra essere l’emblema della fine  e del nulla verso cui tende la vita di tutti noi. Gonaria aveva riposto tutte le sue speranze nella realizzazione della carriera ecclesiastica del fratello Ciriaco che però, quasi subito dopo l’ordinazione sacerdotale, muore annullando il senso del sacro e il senso dell’attesa di un futuro radioso che era sicura si sarebbe realizzato come meritato premio per la sua profonda fede religiosa.
Bianca risponde
Anche Gonaria (di famiglia bene decaduta, parente dei Sanna), maestra elementare per necessità economica e per vocazione religiosa, dato che non insegna che preghiere in una classe femminile, ed è molto simile ad un suora laica. Come tutte le donne di Nuoro, non conta niente, a meno che non trovi modo di sostenere e servire un uomo. Quest’uomo è Ciriaco, suo fratello prete che, non avendo canonica, sogna di e si adopera a farsi nominare Arciprete in curia. Gonaria sogna il sogno di Ciriaco.
Tutte le energie e le poche sostanze sono mobilitate in quel senso, anche il suo arcaico e ossessivo magismo religioso. Crede che il raggiungimento dell’obiettivo sia non solo una promozione sociale notevole, ma un innalzamento verso la sacralità, tale che Dio stesso non può non rispondere chinandosi con speciale benignità verso tanta dedizione. Invece Ciriaco si ammala e muore. Gonaria e le sorelle si sentono come tradite e reagiscono in modi diversamente folli. Gonaria pretende il funerale con l’intero capitolo e non l’ottiene … Possibile? Ma il suo dio immaginario è forse assente. Allora si convince  che si sia in qualche modo oggettualizzato nei paramenti, nelle suppellettili e nella camera stessa in cui Ciriaco è morto. A suo modo opera il sequestro del dio resistendo alle pretese delle sorelle rinsavite e smaniose  di percepire da un affittuario possibile un lauto canone. Gonaria tiene duro per 20 anni. Ma poi cede alle sorelle, apre la camera chiusa, trova topi ragni ragnatele e polvere. Sente che il dio è morto e fugge, pazza

Maria Rosa - 10° Domanda ( lettura dell’ultima pagina che farà Bianca stessa)

La fine del romanzo che si coagula intorno a quella che Salvatore Satta chiama  “seconda parte”  sembra essere la sua riflessione più profonda e disincantata sul tempo e sull’oblio, secondo lui obbligatorio e sulla mancanza di senso della vita che tende al “giorno del giudizio” privo di senso anche questo.  Ce ne vuoi parlare?

Bianca risponde
Come abbiamo capito la finta onniscienza iniziale dell’autore lascia il posto alle dichiarazioni esplicite: egli è il figlio minore dei coniugi Sanna, tornato a Nuoro per “mettere insieme i due spezzoni della sua vita”. Ma si accorge che gli spezzoni restano tali e lo abitano come due mondi non comunicanti. Il mondo rustico e primordiale della sua infanzia è consegnato a segni fisici illeggibili, noti solo a lui che li reca impressi  nella memoria a tal punto che solo a guardare i volti dei viventi ricostruisce le genealogie familiari che essi hanno dimenticato o ignorano. Allora, che senso ha l’aver richiamato in vita un mondo morto, se l’’obiettivo perseguito è stato mancato? La vita si spegne in tanto che procede, e del senso e dei sensi assunti nulla resta. E se tu, scrittore per vocazione, invece di  prepararti alla tua morte e di lasciare i già morti all’oblio, li racconti, li svegli, condanni te stesso a non poter morire. È il pungolo della conoscenza di voler svolgere fino in fondo ciò che il tuo filo di vita contiene. Per sanzionare da vivi la pace dei morti in noi,occorre svolgere tutta la matassa fino a un giudizio finale. 
Del resto è degli scrittori  per vocazione e non per professione, pronunciare il giudizio e non averne paura, dato che si è onestamente risposto al quesito della sfinge:
“Quale senso?” - “Nessuno: è stato.” 


Nessun commento:

Posta un commento